Oltre le parole, l’arte di dire l’indicibile di Jon Fosse

Al via il countdown per il premio Nobel per la Letteratura: sabato 22 giugno riceverà il Taobuk Award for Literary Excellence

Lo stile è beckettiano. Essenziale, scandito da ripetizioni quasi bibliche, incurante del compiacimento dell’intreccio. Procede per sottrazioni, scardinando e decostruendo gli elementi spazio-temporali, così da presentare un ambiente privo di punti di riferimento, dove anche il concetto di identità si annulla e insieme si moltiplica. Jon Fosse, scrittore e drammaturgo, premio Nobel per la Letteratura nel 2023, riceverà il Taobuk Award for Literary Excellence sabato 22 giugno, nel corso della serata di Gala al Teatro Antico di Taormina. Tradotto in 50 lingue e considerato dal Daily Telegraph uno dei 100 geni viventi, il “Samuel Beckett norvegese” dà voce all’indicibile, indaga il senso, ambisce all’universale, sfida i limiti del linguaggio, rifiuta ogni convenzione stilistica, scolpendo dialoghi impossibili con chi non è o è ancora da venire.

La parola è scarna, iterativa, minimalista, visionaria, quasi mistica. I personaggi sono nel tempo e fuori del tempo. Non hanno un nome, non importa chi siano. Sono e basta. Si arrovellano, si struggono, si interrogano, sospesi in una dimensione altra. Sono visioni di una realtà crudele. Non sono eroi. Sono solitari, narcisi, disadattati, vittime di una società che ha perso ogni collante, ogni solidarietà. Si parlano addosso, si ripetono, pirandellianamente senza capirsi mai, dando luogo a sequenze narrative di natura descrittiva, più che mirate a restituire l’azione dei caratteri in campo. Proprio in quanto sottratti alle esigenze legate all’intreccio, assumono uno spessore psicologico complesso, che si risolve in una focalizzazione introspettiva, consentendo al lettore di scendere nelle fratture della psiche.

L’opera di Fosse è così vasta da attraversare quasi tutte le categorie letterarie: è autore di più di venti opere in prosa, tredici volumi di poesia, tre saggi, libri per l’infanzia e una trentina di opere teatrali ed è inoltre traduttore in norvegese. Ha scritto capolavori che rimarranno per sempre scolpiti nel tempo, come Melancholia e Settologia, il libro-mondo in sette parti, quasi un ibrido tra letteratura e teatro, dove il flusso di coscienza sgorga libero, cancellando i punti e le virgole, fuori dalle strettoie della punteggiatura e dei periodi brevi e sintetici. La preghiera-sipario, che chiude i capitoli del secondo volume sgranando il rosario, come lo scorrimento di un grande velo, fa calare l’ombra sul palcoscenico. Un’ombra fatta di “luminosa oscurità”. Perché, come scrive Fosse, “continuo così, a volte soltanto con il bianco, a volte soltanto con il nero, ma sempre con il colore a olio molto diluito, insisto fino a quando il buio comincia a brillare, dipingo nell’oscurità con il bianco o il nero e a un certo punto il buio diventa luminoso, sì sempre, sì, sì prima o poi il buio comincia a splendere”. Allo stesso modo il suo teatro si fa rappresentazione dell’inenarrabile, ritmato da ripetizioni, pause e silenzi, in equilibrio tra realismo psicologico e assurdismo tali da renderlo il più importante fenomeno della drammaturgia norvegese dopo Ibsen

Dentro la scrittura, dice il premio Nobel, si smuove ogni certezza, vacilla ogni sicumera, anche il più sereno ateismo rischia di cedere. La scrittura diviene allora un esercizio religioso, una visione mistica. Allena a uno stupore inesauribile, e incoraggia a edificare un mondo. Un’opera che sia un mondo (“il romanzo stesso dev’essere un mondo”): musica, pittura e luce: polifonia, pluralità, più che trama.
Il New York Times ha definito Fosse “uno di quegli scrittori che ti senti in colpa di non avere ancora letto”. Per quella sua capacità di afferrare l’ineffabile, di dire ciò che è indicibile. Un po’ come fa la poesia o la religione. Non è una casualità. Nel 2012 infatti si è convertito al cattolicesimo: “Sento che nella mia scrittura – ha detto in un’intervista al New Yorker – c’è una sorta di riconciliazione. O, per usare una parola cattolica o cristiana, di pace”.