Le parole non sono innocue.
Hanno radici, hanno ramificazioni, plasmano non solo ciò che diciamo — ma ciò che diventiamo.
La violenza di genere non nasce da un gesto improvviso, ma da un linguaggio che prepara il terreno: stereotipi normalizzati, frasi che sminuiscono, narrazioni tossiche che diventano abitudine.
A Taobuk abbiamo scelto di lavorare proprio su questo terreno: la grammatica del rispetto. Negli anni abbiamo ospitato autrici come Annie Ernaux, Azar Nafisi e Joyce Carol Oates, che hanno denunciato la violenza attraverso la scrittura e restituito alla parola il suo potere politico.
Ma abbiamo ospitato anche chi la violenza l’ha attraversata sulla propria pelle.
Valentina Pitzalis, sopravvissuta a un tentativo di femminicidio, ha portato al festival una testimonianza di coraggio e dignità. Così come Eleonora De Nardis, che ha trasformato la sua ferita in un impegno pubblico, ricordandoci che raccontare significa già resistere.
Perché ogni festival, ogni libro, ogni incontro è un’occasione per cambiare la grammatica della convivenza. E noi crediamo che cambiare la grammatica significhi cambiare il mondo.Perché quando le parole giuste si fanno strumento di lettura, allora la violenza perde parte della sua forza.
La violenza vive nelle parole che feriscono — “esageri”, “te la sei cercata”, “sei fragile” — e si indebolisce nelle parole che curano: “ti credo”, “non sei sola”.
Serve una ribellione nuova: non urlata, non reattiva, ma culturale.
Una ribellione che passa da tre verbi semplici:
Nominare la violenza senza edulcorarla.
Educare al linguaggio come responsabilità.
Restituire voce e dignità a chi l’ha perduta.
Perché quando parliamo di violenza di genere non parliamo di donne: parliamo di società.
E il primo atto per cambiarla è scegliere le parole giuste.
la violenza non è un destino, è un linguaggio.
E ogni volta che scegliamo una parola giusta — una parola che cura, che riconosce, che accoglie — stiamo già cambiando il mondo.
La vera ribellione, oggi, è questa: restituire dignità attraverso la parola.
Perché il futuro non si impone:
si racconta.
Antonella Ferrara