Ogni fine d’anno è, per chi lavora nella cultura, un tempo di bilanci che non si misurano in numeri. È il momento in cui ci si chiede che cosa abbia davvero lasciato traccia: quali pensieri hanno trovato spazio, quali sono stati interrotti, quali non hanno potuto essere condivisi. È una verifica che riguarda il senso stesso del lavoro culturale e la responsabilità del discorso pubblico, il modo in cui esso viene costruito, distribuito, legittimato.
La cultura occidentale di cui siamo eredi ha inscritto molto presto questa responsabilità in una scena fondativa. Nell’Odissea, Penelope ascolta un canto che racconta il ritorno dei Greci da Troia. Per chi lo intona è celebrazione; per lei è dolore, perché riapre l’assenza e rende l’attesa insopportabile. Penelope chiede che il canto cambi, che si faccia più leggero. A risponderle è il figlio Telemaco, che le ordina il silenzio: non perché abbia torto, ma perché la parola pubblica è ritenuta incompatibile con il suo essere donna.
Penelope obbedisce.
Secondo gli storici questo rappresenta il primo esempio nell’antichità greco-romana di una lunga serie di tentativi, spesso coronati da successo, non solo di escludere le donne dal discorso pubblico, ma anche di celebrare questa esclusione come una conquista.
Come ben sappiamo, il silenzio di Penelope ha attraversato i secoli, stabilendo un confine tra chi può prendere la parola e chi deve tacere. Da gesto imposto, il silenzio delle donne diventa abitudine, poi orizzonte condiviso.
La storia della cultura occidentale può essere letta anche come la lenta, faticosa erosione di quel confine. Un processo che assume forme diverse a seconda dei luoghi, delle tradizioni, delle comunità che lo attraversano.
Noi siciliani comprendiamo bene questo tema e il concetto di identità. E sappiamo che il patrimonio non è costituito soltanto da edifici e creazioni artistiche, ma da racconti e da memoria condivisa.
In questo senso, i confini della mia identità sono due.
In primo luogo sono siciliana, come molti di voi. E so che la nostra identità si è plasmata attraverso i cunti dei cantastorie, attraverso l’Opera dei Pupi che narrava le imprese di Orlando e Rinaldo, attraverso i romanzi di Verga che hanno elevato il mondo rurale a dignità letteraria, attraverso il teatro di Pirandello che ha interrogato la nostra posizione nell’esistenza, attraverso le parole di giustizia di Sciascia, attraverso le opere di Camilleri che hanno trasformato il nostro dialetto in una lingua letteraria riconosciuta ovunque.
Ma sono anche una donna.
Per questo non posso non rendere omaggio ad alcune donne artiste italiane: alle scrittrici Elsa Morante, Oriana Fallaci, Natalia Ginzburg e Maria Bellonci, Goliarda Sapienza, Maria Messina a loro, perché hanno spostato il confine imposto da Telemaco a Penelope. Perché hanno conquistato prima di noi lo spazio che agli uomini veniva concesso naturalmente. E hanno aperto varchi definitivi in un territorio che continuava a considerarle ospiti temporanee piuttosto che abitanti di diritto.
Oggi possiamo scegliere. Ma spesso ci viene chiesto di farlo senza disturbare, senza sembrare troppo forti o troppo fragili, troppo ambiziose o troppo visibili. Siamo diventate bravissime nelle acrobazie. Ma il cammino verso una dignità piena non è ancora concluso.
Da Penelope alla Morante, quando una donna prende la parola in uno spazio culturale, non sta solo parlando per sé: sta onorando tutte quelle che prima di lei non hanno potuto farlo, sta aprendo la strada a quelle che verranno dopo. Questo è il significato più profondo di Taobuk: creare uno spazio dove la dignità di ogni persona, a prescindere dal genere, dalla provenienza, dalla storia personale, sia il presupposto, non la conquista.
È in questo spazio, ancora fragile ma necessario, che si colloca l’esperienza di molte donne oggi: donne che, con determinazione e visione, stanno riscrivendo le regole di un gioco. Anzi, stanno tessendo una trama più aperta in cui raccontare il futuro comune.
È in questo orizzonte ancora incompiuto che il tempo delle festività acquista un significato ulteriore.
Il Natale, se sottratto alla ritualità vuota, può ancora essere un tempo di sospensione fertile. Un tempo in cui restituire peso alle parole, valore all’ascolto, senso allo spazio condiviso. Non una tregua dal presente, ma un modo più esigente di attraversarlo.
Da Taobuk, l’augurio è anche un impegno: continuare a costruire luoghi in cui la parola non sia concessa, ma riconosciuta.
Buone feste.
Antonella Ferrara